di Lorenza Cattadori
E
menomale che lo sponsor austriaco entra a forza nel nome del Festival e invece
di guastarlo lo riempie di musicalità e di un certo mistero. Giustamente
l’organizzatore Massimo Barbiero ne sottolinea la forza e pure l’unicità, se è
vero che per organizzare un evento che dura da quasi quaranta edizioni occorra
rivolgersi a un’azienda di software viennese. C’è di che riflettere.
OPEN PAPYRUS JAZZ FESTIVAL, e benché l’amministrazione locale lo consideri certamente
un elemento importantissimo nel panorama culturale di Ivrea è giusto l’energia
dei molti giovani volontari, la curiosità creata dal filo conduttore della
manifestazione – ogni anno differente – e un palinsesto sempre studiato ad arte
a farne un appuntamento amato, atteso e autorevole. Reiterazione della vocale “A”.
Un’Anticipazione davvero
interessante del festival è stata la presentazione, il 14 maggio, del primo
lavoro di un duo inedito formato da Emanuele Sartoris – già ospite fisso della
trasmissione “Nessun Dorma” di Rai 5 condotta da Massimo Bernardini, che firma
anche le note di copertina - e da Marco Bellafiore con qualche pensiero a modelli come Bill Evans con Eddie Gomez o più recentemente
Grégory Privat con Lars Danielsson: un pianoforte che dialoga con un
contrabbasso dando sulla carta l’idea di ascoltare un suono piuttosto ostico e vago
che invece si rivela poetico e pieno, e questi due musicisti dimostrano una
sensibilità e una maturità che contrasta con la giovanissima età. L’occasione è
la rilettura delle poesie di Charles Baudelaire giocando sui titoli, ma “I
Suoni del Male” è un album davvero ben costruito che speriamo di poter
approfondire sempre su queste pagine.
La
prima traccia della trentottesima edizione dell’Open Jazz è un’Anteprima con qualche rimando alla natura stessa
del festival, così attento alla coesistenza di ogni forma d’arte e quest’anno costruito
sul tema della ‘elogio della follia’ proprio come la vedeva Erasmo Da Rotterdam:
un gioco pazzo dove le passioni hanno la meglio e vince sempre la vita. Nel
bellissimo, inaspettato spazio del Museo Garda sabato 17 marzo il quartetto
Enten Eller, decisamente uno tra i più longevi gruppi jazz in Italia, si è
riunito portando ognuno un proprio pezzo, inedito persino per gli altri tre
componenti, suonando in una sala del museo mentre in altre quattro erano
posizionati altrettanti danzatori. Un’improvvisazione spinta ed energetica affinata
sul mito del Minotauro, richiamo alla follia con protagonisti le percussioni di
Massimo Barbiero sulla danza di Roberta Tirassa; Teseo, la ragione, vede la
chitarra di Maurizio Brunod e il gesto ampio di Tommaso Serratore, mentre
Minosse che impersona il potere è interpretato dalla tromba di Alberto
Mandarini e dalla danzatrice Sara Peters e il contrabbassista Giovanni Maier
con Giulia Ceolin celebrano Arianna e il tema del sentimento. Brani tesissimi a
sperimentare tutte le sonorità possibili dei reciproci strumenti e una danza sempre
opportuna (e in qualche caso perfetta) che il pubblico dimostra di apprezzare
con lunghissimi applausi, dopo l’ultima impalpabile nota di "Per Emanuela", pezzo
degli Enten Eller che raduna nel finale tutti gli artisti nella stessa sala.
Più che un incipit un vortex.
L’inizio
della ‘tre giorni di jazz’ si svolge giovedì 22 marzo in Santa Marta, una
chiesa sconsacrata ma in un certo senso riconsacrata alla musica e a varie
conferenze. Un luogo pieno di fascino che sopperisce a qualche carenza acustica
con la qualità delle offerte culturali. La serata si sdoppia in due set
assolutamente eterogenei: l’Abbacinante
e l’Adrenalinico, un senso malinconico
da brivido contrapposto ai brividi di una danza guerriera.
Il
chitarrista Lorenzo Cominoli – tratto gentile ma colto – consuma nell’ascolto i
cd di Garrison Fewell tanto da studiare, insieme ad altri due grandi musicisti
come Max De Aloe e Attilio Zanchi, un trio ad hoc che possa reinterpretare la
poesia di Fewell anche attraverso strumenti come accordion e armoniche cromatiche,
suonate da De Aloe in modo magistrale.
Esperimento
davvero riuscito - su disco nulla cambia ed è cosa assai rara - e la proposta
musicale passa dai brani di Fewell (splendido "City Of Dreams" che offre anche un
titolo per il progetto) a citazioni di ciò che Fewell amava come "Beatrice" di
Sam Rivers, fino a qualcosa di originale come il pezzo "Blue Night Of Fez" composto
da Cominoli e la commovente (in senso etimologico) "A Reason To Believe" di
Zanchi che ricama con il suo contrabbasso note dense e profonde. Concerto molto
apprezzato, anche da chi scrive, che parte con dolcezza e si risolve in un
finale pieno di anfratti e note ‘nere’. Il bis era pronto ma il secondo set
scalpita, scalpita veramente insieme a una trentina di danzatrici le quali, forti
di giochi di luci, costumi e coreografie originali, coinvolge il pubblico con
movenze guerriere, si diceva, accompagnando il gesto con grida e un senso di combattimento
imperante – tranne in un quadro in solitaria - anche in virtù della musica che accompagna:
ossia quel particolare album registrato da Barbiero lo scorso anno insieme al
chitarrista Roberto Zorzi e all’arrampicatore vocale Boris Savoldelli. Troppe
le danzatrici perché qui si possa omaggiarle personalmente, ma è corale il
ringraziamento per la particolare performance. Così come un piccolo rimando va
al ‘bravo presentatore’ Daniele Lucca: voce caldissima in mille battute (e
battutine), ma il merito di un sostrato culturale non indifferente.
La terza storia va
in scena venerdì 23 marzo e inizia con Appeal
insieme alla presentazione della più recente pubblicazione dello studioso Guido Michelone, "Il Michelone", appunto, una sorta
di almanacco che muove dalle recensioni pubblicate negli anni come occasione
per parlare di musicisti e correnti jazzistiche. Preparazione rigorosa ma
sorridente, maglioncino verde mela, un musicista diciassettenne ad
accompagnarlo e intervistarlo e il tutto stemperato nello stile leggero del
musicologo, che non cade mai dall’alto e si rende comprensibile anche a chi è
presente solo per il piacere di esserci. A seguire, un concerto veramente archetipico fatto delle molte modalità
di percepire la musica: il chitarrista valdostano Loris Deval si misura con il
violino limpido di Anais Drago, con le influenze balcaniche nel contrabbasso di
Viden Spassov e soprattutto con il Brasile del percussionista Gilson Silveira
ed è tutto un prisma di suoni molto piacevole per l’ascoltatore. Il progetto "Oba Mundo" è giocato sulla rivisitazione di colonne sonore, e anche se essere in
bossa seguendo Silveira nella "Samba De Orfeu" è operazione piuttosto complessa,
in altri brani la resa è piena e sapiente.
Debutto
al Teatro Giacosa ed è un’esplosione di musica Assoluta. La notevolissima Helga Plankensteiner, strumentista
altoatesina ai fiati, crea un sestetto inizialmente definito ‘mitteleuropeo’
per la provenienza dei suoi componenti. L’idea parte da un reinterpretazione
dei Lieder di Franz Schubert e tutto lascia a bocca aperta; il motivo non è solamente nell’essere tutti
quanti concentrati a cercare un nesso tra composizioni originali e
rielaborazione, ma perché non sappiamo trovare un solo piccolo difetto a questo
ensemble così equilibrato, sapiente e simpatico (anche qui, in senso
etimologico). Helga suona il sax baritono (con un garbo che non risiede solo
nel fatto di essere donna), il clarinetto e poi canta e la sua voce ha un
timbro bellissimo e non ha nulla di impostato – cosa rarissima in Italia,
vogliate concederci un piccolo appunto – insieme al pianista e organista Michael
Lösch, al trombonista Gerhard Gschlössl, al trombettista Matthias Schrieff (a
cui è dedicato il brano "Meister Schrieff") e a a due dei nostri più lucidi
strumentisti, ossia Enrico Terragnoli a banjo elettrico e chitarra e Nelide
Bandello alla batteria. Tutti magnifici.
Serata
di Astri in un cielo piovoso, perché
nel secondo set c’è Enrico Rava con il suo New Quartet, che perde per una sera
il contrabbasso di Gabriele Evangelista per trovare il suono di Francesco
Ponticelli, concentratissimo ma non atterrito, dal momento che con Rava aveva
già suonato; il chitarrista Francesco Diodati gioca con l’elettronica e tra un
ingorgo di pedaliere, loop e delay il suono ci arriva diretto e quasi
familiare; governa le percussioni un bravo Enrico Morello sempre puntuale in
ogni passaggio. Concerto oggettivamente bello,
costruito su alcuni brani di Rava fatti di quella lontananza
leggerissima e una "My Funny Valentine" superba alla faccia delle maldicenze
intorno a quel pezzo.
La
serata prosegue al Caffè del Teatro tra piatti, calici e un sostanziale rumore
di fondo mitigato solo dall’esibizione piacevolissima del The Essence Quartet
con Sara Kari al sax, Emanuele Sartoris al piano elettrico, Dario Scopesi al
contrabbasso e Antonio Stizzoli alla batteria.
Il
sabato 24 marzo scoppia di salute con la presentazione del libro “Grande Musica
Nera” di Paul Steinbeck, edito da Quodlibet e curato dal musicologo Claudio
Sessa, presente in Santa Marta con Davide Gamba, libraio e musicista e lo
stesso Barbiero, perché il volume ci parla degli Art Ensemble Of Chicago e lui
con Famoudou Don Moye ci ha suonato. Sessa è sempre enciclopedico, ma mai pedante
ed è un piacere da ascoltare.
La
parola è importante e lo dimostra anche il primo dei due concerti al Teatro
Giacosa. La parola questa volta è Approfondimento
e lo è su Thelonious Monk e quei sette anni di silenzio, che poi significa “non
suono” in tutte le accezioni possibili, a casa di Pannonica sul fiume Hudson,
insieme alla moglie Nellie. A narrarci i pensieri è uno dei nostri scrittori,
talmente bravo e amato da divenire uno scrittore ‘nostro’, e così Stefano Benni
sceglie Umberto Petrin a lasciar tradurre in musica il bellissimo testo letto
al pubblico e perfezionato ad ogni esibizione. Tutto funziona perfettamente e
l’immedesimazione – in "Sphere", ma anche in "Billie" a cui è dedicata una parte del
reading - è davvero fortissima.
Secondo
concerto molto composito, affidato a un vincitore del Top Jazz quale Riccardo
Brazzale con la Lydian Sound Orchestra. L’occasione di questo concerto,
intitolato "We Insist", è ricordare il cinquantesimo dalla morte di Martin Luther
King e il rimando è naturalmente importante così come lo è la struttura
dell’esibizione, che alterna ottimi pezzi originali (una per tutti "Un Capanno
Di Montagna In Mezzo Al Mare", davvero Avvolgente)
a interpretazioni dallo stupendo album del 1960 “We Insist! Freedom Now Suite”
con Mauro Beggio a ricalcare Max Roach. La cantante Vivian Grillo, voce
notevole, si rende conto che il ‘modello Abbey Lincoln’ sia inarrivabile e dà
il meglio, ma forse avremmo preferito qualche sonorità più profonda e un timbro
meno squillante da standard. Va meglio in "Blackbird" di Lennon-McCartney – l’idea di libertà è virata in molte forme – giocata
come in un’opera di Gershwin: una soprano che canta nelle proprie modalità
sopra uno swing incontenibile. Impossibile non menzionare tutti i musicisti: un
inaspettato e sorprendente Mauro Negri al clarinetto, Robert Bonisolo ai sax,
Rossano Emili al baritono, Gianluca Carollo a tromba e flicorno, Giovanni
Hoffer al corno, Roberto Rossi al trombone, Glauco Benedetti alla tuba, Paolo
Birro al piano, Marc Abrams al contrabbasso oltre a Vivian e Beggio già citati
e al trio Broken Sword Vocal Ensemble.
Perché
tutta questa prevalenza di “A”? L’unica spiegazione è che occorra un filo
ideale per muoversi in tutto questo coacervo di spunti. E in effetti non pochi
artisti, salendo sul palco a ringraziare dell’invito l’organizzazione, li ha
chiamati “pazzi” e non come riferimento a Erasmo, ma pazzi davvero per essere
riusciti a organizzare un festival tanto poliedrico.
O, visto l’orientamento
attuale, anche solo un festival.