Quell’anno Tony decise di regalarsi un periodo di tranquillità e così s'imbarcò su un piroscafo per una crociera intorno al mondo. Conobbe moltissima gente, riprese il contatto con le donne, riacquistò un bel colorito grazie alle lunghe sedute elioterapiche che teneva sul ponte della nave, e soprattutto riuscì a stare lontano dalla musica e da tutti i problemi che questa gli aveva creato.
Ma quando la nave giunse in prossimità della East Coast americana, Tony subì nella mente un frenetico accavallamento di immagini e suoni. Udì le voci di alcuni passeggeri che riconobbero lo skyline di New York, la Statua della Libertà, le Twin Towers ancora in piedi, l’Empire State Building, e così non poté fare a meno di pensare al jazz, a Duke Ellington e alla sua Harlem, ai mitici anni del be-bop, ai famosi locali di Manhattan, alla Carnegie Hall, agli anni del free ed a tutti i linguaggi musicali che in quella città si erano succeduti. Il peggio fu che nella sua mente prese forma un brano che comprendeva tutti gli stili, e così gli sembrò di ascoltare Count Basie che dirigeva “Free Jazz” di Ornette Coleman, con la linea di basso di “A Love Supreme”, il tema di “Summertime”, il drumming sincopato di “Meditation On Integration”, i campionamenti di John Surman: al sax Charlie Parker e John Zorn; alla tromba Miles, Bix, Dizzy, Dave Douglas ed Austin Forte; al pianoforte Cecil Taylor e Bill Evans; al contrabbasso Mingus, Jimmy Blanton e Ron Carter; alla batteria il suo compagno di tante avventure, quel rullo compressore di ‘BobCat’ che non lo aveva mai abbandonato, neanche nei momenti più bui.
Fu così, quasi per incanto, che salì sulla nave un grande della storia del jazz, uno di quegli eroi che avevano illuminato il suo percorso artistico e metamorfico e che avevano ispirato racconti e film dal sapore bariccato-tornatoriano.
Era… James P. J.J. Gegé Di Giacomo Johnson, una figura mitologica indescrivibile a metà, anzi ad un terzo, tra un pianista di ragtime, un trombonista bop e un batterista carosoniano. Si era trasformato al punto da non essere riconosciuto dai suoi stessi fans; e pensare che Tony, quando ci vedeva, aveva voluto nel suo studio tutte le immagini che ne testimoniavano i cambiamenti.
Era invecchiato James, ma aveva ancora quell’andatura dinoccolata tipica dei grandi artisti, andatura dovuta più agli anni di notti insonni alle prese con jam-sessions, alcool e droga, che non ad un effettivo intorpidimento delle giunture. Fu così che si diresse verso Tony per sfidarlo al cospetto di più di mille spettatori.
Era tornata l’era delle grandi sfide:
- "Duke Ellington contro Count Basie... Ella Fitzgerald contro Billie Holiday... Dexter Gordon contro Wardell Grey... Lee Konitz contro Warne Marsh... Al Cohn contro Zoot Sims... Steve Lacy contro Evan Parker, a colpi di soprano.
- “Ed ora, cari fratello, ho l’onore di presentare la sfida del secolo. Un evento che non avreste mai immaginato per la sua portata. Una vera battaglia a colpi di note. Fiato alle trombe, Lo Turco!!! Ecco a voi Tony contro... James P. J.J. Gegé Di Giacomo Johnson”.
Già s'immaginavano i titoli dei giornali: “Scontro fra titani”... “La musica dei giganti”... “Un delirio di strumenti”.
Le tifoserie erano schierate in maniera abbastanza equilibrata. C’erano striscioni che coloravano la lussuosa sala da ballo del piroscafo ed i cori imperversavano senza sosta in un’atmosfera da Olimpiade, cosa che esalto’ enormemente i due protagonisti.
- ” … Ecco sulla sinistra James P. J.J. Gegé Di Giacomo Johnson che parte per un assolo di trombone, mentre a centrocampo la ritmica incalza schiacciando l’avversario nella propria area di rigore… il trombone continua a galoppare all’attacco, lancia la nota sulla fascia sinistra, l’audience è disorientata, un ultimo colpo di coulisse… ed e’ GOOOOOAAAAAAALLLLLLLL!!! Uno a zero”.
Tony fu preso di sorpresa e fu impossibilitato a reagire per tutto il primo tempo soprattutto perché... James P. J.J. Gegé approfittava della cecità del suo avversario per nascondergli strumenti, note e spartiti e addirittura per sgambettarlo durante i suoi assolo. Dopo un goal realizzato con le bacchette, commettendo un fallo di mani non rilevato dall’arbitro ecuadoriano Byron Moreno - tra l’altro in fuori gioco per aver steccato al trombone un DO sopra il rigo - James P. J.J. Gege’ Di Giacomo Johnson andò al riposo in vantaggio per 2 a 0.
Fu in quel momento che Tony ebbe una di quelle idee che lo avevano reso unico al mondo. Gli venne in mente di aver parlato qualche giorno prima con il Dottor Guarracino, un biologo che insegnava all’Università di Pollenatrocchia e che aveva il suo laboratorio sul piroscafo. Guarracino gli aveva raccontato delle sue ricerche sui delfini, sicché Tony approfittò di quel quarto d’ora di riposo per farsi… impiantare il cosiddetto ‘terzo orecchio’, una specie di sonar che i delfini hanno per comunicare e individuare il movimento dei corpi.
Alla ripresa del match fu tutta un’altra storia. Tony non si lasciò sfuggire una sola nota, dando fondo alla sua polivalenza artistica e sportiva e sfruttando tutta la sua velocità sicché Di Giacomo Johnson rimase completamente fuori dal gioco. Fu così che Tony prima accorciò le distanze grazie ad una splendida versione di “On Green Dolphin Street”, poi pareggiò al novantesimo con l’esecuzione di “Dolphin Dance” con cui riuscì a cullare e ad addormentare finalmente il suo avversario. In questi brani riuscì a prendere degli splendidi assolo utilizzando gli ultrasuoni acquisiti con il terzo orecchio, a tonalità talmente acute da stordire non solo James P. J.J. Gegé ma addirittura l’intera platea, che si liberò alla fine del tempo regolamentare in un fragoroso applauso.
Fu allora, quando il golden goal era ormai nell’aria, che accadde una cosa stupefacente. Le magiche note che Tony aveva suonato richiamarono la bellezza di 100 delfini che, con le loro evoluzioni intorno al piroscafo, fecero agitare le acque al punto da far cadere in mare James P. J.J. Gegé Di Giacomo Johnson. L’arbitro non poté fare a meno di assegnare così a Tony la vittoria per k.o. tecnico al tie-break del primo tempo supplementare.
Fu così che Tony, non solo si riappriopriò della corona unificata delle federazioni pugilistiche, ma riuscì a battere un altro primato: fece dimenticare le 56 balene arenatesi nella baia di Cuernavaca alla morte di Mingus.
Era stanco Tony, sempre più stanco. Ancora una volta non riuscì a fare altro che stendersi goffamente per terra - ormai sul divano non riusciva più a starci - pigiare un tasto del telecomando della sua tv e restare incantato davanti alle immagini di un documentario su Max Ernst e Giorgio De Chirico. E già, la metafisica. Sembrava una caso ma non lo era. Niente era mai stato un caso nella sua vita.
Ciò che lo colpì maggiormente fu però ancora la musica: una colonna sonora con momenti straordinari in cui si incrociavano sei sassofoni soprani. Nonostante fosse stanco, restò sveglio fino alla fine per poter leggere i titoli di coda…
“Musiche composte ed eseguite da Steve Lacy”. “Islands”. “Labyrinth”.
Sei linee di sassofono. Lui, con sei braccia, ne avrebbe potuto suonare soltanto tre e così pensò che c’era qualcuno che in questo lo batteva. Provò ad addormentarsi, confidando nella sua natura metamorfica che lo avrebbe fatto risvegliare con… dodici braccia.
Tutto ciò però non avvenne, e per tre motivi: innanzitutto perché il suo corpo di rancio fellone non aveva lo spazio per poter accogliere altre sei braccia; poi perché la sua bocca era larga per poter accogliere soltanto tre sassofoni e non sei; infine perché lui non immaginava neanche lontanamente, al contrario della sua metamorfosi - che ormai aveva preso il sopravvento sulla sua mente - che quelle sei linee di sassofono erano state incise da Lacy in sei momenti differenti.
Fu un dramma.
Tony decise di fare di tutto per incontrare Lacy, conoscerlo, compiendo quello che sarebbe stato… il suo ultimo viaggio.
Parigi. La Ville Lumiére.
Tony riuscì a trovare l’indirizzo di Lacy dall’elenco del telefono, prese un taxi ed in dieci minuti era lì.
- “Ed ora? Che faccio, busso? E poi, sono sicuro che apra? Potrebbe anche aver paura di un essere abnorme come me. Ma io sono così, non posso farci niente. E poi, cosa gli dico? Magari fingo di essere un giornalista che vuole intervistarlo. Ma si, faccio così. Gli domando di Duke Ellington, di Cecil Taylor, di Gil Evans. Mi faccio raccontare la storia di Coltrane che imbracciò il soprano dopo aver ascoltato proprio lui. Gli chiedo delle sue esperienze con attori come Antonio Neiwiller e Leo De Berardinis; ballerini, artisti, poeti. Oppure mi faccio raccontare di quando andò via dall’America per evitare di suonare un jazz troppo commerciale.
Che faccio, busso? Ma si!!!”.
Lacy giunse alla porta in pochi secondi, aprì e, sebbene avesse di fronte una creatura sovrumana, non si lasciò impressionare minimamente. Anzi, guardò negli occhi Tony senza dire nulla, immobile, aspettando come il più grande dei pistoleri la prima mossa del nemico.
- Ciao Steve. Io sono...
- Ciao Tony. Entra
Prima che Tony finisse di parlare, Lacy lo invitò ad accomodarsi nel suo studio, una stanza grande e quasi vuota. In un angolo, un materasso ben ordinato. Accanto, un leggio con gli spartiti e il sax che riposava poggiato sulla sua campana. Dall’altro lato, una poltrona con un gatto che dormiva placidamente, drizzando di tanto in tanto le orecchie.
Per l’emozione Tony ammutolì. Inizialmente rimase incantato da quella casa essenziale. Poi riuscì a sfilare rapidamente dalle fondine i suoi tre sax – tenore, contralto, soprano – dando così vita al più grande magma sonoro che orecchio umano avesse mai udito. Dopo tre minuti di autentico uragano, Tony si interruppe, cercando di capire a quel punto cosa potesse fare Lacy.
- “Per favore, un pò di swing!”.
Lacy suonò così una sola frase di soprano.
Un po' alterato per quello che poteva sembrargli un affronto, Tony raddoppiò la velocità, migliorando ulteriormente il suo primato.
- “Per favore, un po' di swing!”.
Lacy rispose con una sola nota, lunga.
Ancora Tony, letteralmente infuriato come mai gli era capitato, tirò fuori dai suoi strumenti una vera bomba sonora.
Lacy, dal canto suo, restò zitto. Silenzio assoluto.
Quel silenzio durò un minuto, due minuti, cinque minuti, un’ora, un giorno, una vita.
Non è che Tony non ascoltò più nulla per il resto dei suoi giorni. Gli accadde semplicemente di acquisire la conoscenza del tempo… non quello del metronomo, qualcosa di più. Il tempo come entità flessibile alla quale poter adattare la propria esistenza.
Gli passarono così per la mente i nomi e i volti dei musicisti scomparsi prematuramente, bruciando le tappe e concentrando una vita intera in pochi decenni. Il tempo è davvero un concetto relativo:
Bix Beiderbecke… Eddie Lang… Fats Waller… Glenn Miller… Charlie Christian… Django Reinhardt… Fats Navarro… Charlie Parker… Clifford Brown… Billie Holiday… Oscar Pettiford… Dick Twardzik… Booker Little… Lee Morgan… Herbie Nichols… Eric Dolphy… Bud Powell… John Coltrane… Wes Montgomery… Albert Ayler… Wynton Kelly… Roland Kirk… Jaco Pastorius… Tom Cora… Massimo Urbani… Michel Petrucciani.
Michel, la perfetta corrispondenza tra corpo ed arte, con quelle due mani che erano uno spettacolo a vedersi.
Chi per dissolutezza, chi per malattia, chi per incidente, morirono quasi tutti prima dei quarant’anni, alcuni molto prima, altri appena dopo. Eppure, nessuno di loro ha lasciato per strada una sola nota non suonata. Hanno tutti compiuto il loro percorso artistico, giungendo così alla fine per motivi… biologici. E già, perché quando ti capita di morire, in qualunque modo e a qualunque età, è perché tutto sommato hai abbassato la guardia, perché senti di aver detto e dato tutto.
Ma Tony sapeva che gli mancava ancora qualcosa per compiere il suo percorso, e quel qualcosa gli era ormai vicino, molto vicino.
Satori… l’illuminazione.
Essendosi impossessato del concetto di tempo, aveva improvvisamente compreso tutto. La musica di Thelonious Monk, con quei vuoti così pregni di tensione, e poi ancora… ma poi, cosa c’è di più della musica di Monk? Musica in cui struttura e pelle si scambiano i ruoli e in cui il tempo diventa spazio, dilatandosi, accorciandosi, rendendosi flessibile, mutevole… aperto. In quell’apertura Tony ci infilò tutto se stesso, comprendendo quanto gli spazi vuoti possano dare l’opportunità di immaginare, mentre una musica serrata, tutta scritta, eseguita velocemente, senza pause… non puoi far altro che subirla.
Less is more. Il meno è più.
“Lover Man”, il momento più alto dell’arte di Bird, una drammaticità espressa tutta nelle note mancate.
Ornamento e delitto.
Da quel momento Tony iniziò a togliere, a sottrarre, a dilatare il suo tempo e il suo spazio. Riuscì a farsi piacere la sua musica, scandendo per bene il ritmo, cullandosi in carezzevoli armonie, cantando dolci melodie.
Nica’s Dream
Melodie che rallentavano sempre più, diventando ballads.
My Funny Valentine
Darn That Dream
Ma le melodie e le armonie a un certo punto rimasero sottintese nella sua musica… non c’era bisogno di esporle. Potevi cantarci anche altro.
E fu così che, liberatosi dalle sue catene, ebbe una visione. Vide la ragazza dal pollice grosso fare l’autostop sulla Route 66, simbolo di un’intera generazione, una generazione trascinata dal ritmo di Art Blakey e dagli “accordi di gomito” di Monk. Oh, Kerouac, Jack Kerouac… e poi Allen Ginsberg, Borroughs, Ferlinghetti, Corso, Cassady… padri di una prosa spontanea, libera, pregna degli staccati del be-bop… poeti che stavano su ventiquattr’ore a bere una tazza di caffé nero dopo l’altra, ad ascoltare dischi su dischi di Wardell Gray, Lester Young, Dexter Gordon, Willie Jackson, Lennie Tristano e tutti gli altri”… e ancora Gysin, si… Brion Gysin… “Songs”… Luvzya Luvzya Luvzya… really really Luvzya… Junk Is No Good Baby… Good Baby Is No Junk… Baby Junk Is No Good… permutazioni di parole che si fanno musica, suono, sovvertendo le regole e semplificandosi sempre più fino a diventare soffio… respiro.
La sottrazione che Tony andava operando più o meno velocemente – tanto la velocità dipende dal tempo, è anch’essa un concetto relativo – quella sottrazione lo portò a diventare un semplice ritmo… lento… perfettamente cadenzato… sempre più lento… percepibile… fruibile… abitabile.
E questa semplificazione operò sul suo corpo un’ultima, definitiva trasformazione: Tony divenne… un cuore.
Un unico cuore che portava il tempo, il ritmo… che iniziò ad essere l’unico, ultimo riferimento della sua vita.
Un cuore che… pulsando… sempre più piano… lo condusse in Bauci, città invisibile, dove Tony giunse a contemplare… affascinato… la propria… assenza.