Miles Davis Quintet / 1965-1968

a cura di Francesco Varriale


The Miles Davis Quintet live 1964, ovvero ‘della quadratura del cerchio’.


Il cinquantenario della prima registrazione di Miles Davis per la Columbia (
"Round About Midnight", 1955) ha indotto la Sony a riproporre, talvolta in una veste rinnovata, molti degli innumerevoli lavori che hanno segnato quello che è stato il più duraturo rapporto tra un musicista di jazz e un’etichetta discografica.
Tra queste registrazioni, quattro ci paiono particolarmente significative per aver caratterizzato un momento che ha poi condotto Miles a quello che è stato il suo celebre ‘secondo quintetto’ che, dal 1965 al 1968, si è cimentato in sedute di registrazione entrate nella storia e che sono poi state immortalate nel fondamentale box 
"The Complete Miles Davis Quintet Columbia Studio Recordings 1965-1968". Dai resti di quel quintetto poi, e grazie all’innovazione portata da altri giovani musicisti, Miles avrebbe dato l’anno seguente il via alla sua fase elettrica.
Ma facciamo un passo indietro, perché c’è un lasso di tempo molto lungo, troppo per Miles, nel quale il trombettista non ha effettuato registrazioni in studio, anche se qualcosa di importante stava comunque accadendo. Cerchiamo di capire cosa.

Dopo la registrazione di 
"Seven Steps To Heaven", realizzato in due sedute e con due formazioni parzialmente differenti, si è avuto un periodo in cui Miles si è cimentato esclusivamente in performance live che hanno spesso, per fortuna, visto comunque la luce su disco. La formazione era quella della seconda seduta effettuata per il disco appena citato, con il tenorsassofonista George Coleman e quella che sarebbe stata a lungo la sezione ritmica di Miles negli anni sessanta, con musicisti giovanissimi come il pianista Herbie Hancock, il contrabbassista Ron Carter, il batterista Tony Williams, tre specialisti dei rispettivi strumenti che erano comunque già nel pieno della loro attività concertistica e discografica, soprattutto nell’ambito dell’etichetta Blue Note.

Ma è nei pochi mesi che trascorrono tra il 12 febbraio ed il 25 settembre del 1964 che accade qualcosa di importante, e bastano poche registrazioni a testimoniarlo.

La prima data corrisponde a quella del live alla Philarmonic Hall di New York, concerto che è poi stato immortalato in due dischi che, sebbene portino due titoli differenti per opportunità di mercato – 
"My Funny Valentine" e "Four & More" (il primo di sole ballads, il secondo di brani a tempo veloce) – vanno considerati assolutamente inscindibili l’uno dall’altro.
Questo concerto ha come evidente riferimento quello tenuto nel 1963 ad Antibes nella francese Costa Azzurra (il relativo disco uscì con il titolo di 
"Miles in Europe") oltre che per l’identica formazione, anche per il repertorio molto simile e per il trattamento che subiscono i brani.
La sezione ritmica risulta già affiatata. Hancock, Carter e Williams non solo sostengono la 
frontline assecondando i solisti o stimolandoli con accelerazioni, rallentamenti del tempo ed improvvise ripartenze, ma forniscono un accompagnamento sempre vario (con figure ritmiche e passaggi assolutamente innovativi) che fa sì che essi, più che stare dietro i fiati, dialoghino con essi, ribaltando sovente le gerarchie ed estendendo al quintetto un forte senso dell'interplay.
Ma, se la sezione ritmica resta una costante per le registrazioni di cui si parla, c’è da fare un discorso a parte sui fiati, ovvero su Miles e il sassofonista che lo affianca di volta in volta. E si tratta sempre di un tenore, quasi a voler portare avanti il discorso iniziato a metà degli anni Cinquanta con Sonny Rollins e proseguito poi con John Coltrane.
Alla Philarmonic Hall suona (per quella che sarà la sua ultima registrazione con Davis) il robusto 
George Coleman. Vi è un equilibrio straordinario tra i due, con Miles che sembra tirar fuori in un solo concerto tutte le sfumature della sua complessa estetica, risultando al contempo (sembrerebbe un paradosso, ma non lo è) introspettivo e viscerale, intimista e solare, impressionista ed espressionista insieme. In questo c’è da attribuire gran merito proprio a Coleman che, esplorando l’ampia gamma cromatica del suo strumento grazie a una notevole estensione, conduce la musica verso dimensioni nelle quali Miles sembra quasi faticare per intervenire, facendolo soltanto per conferire un equilibrio emotivo ancor più che formale.
Altro aspetto importante riguarda la scelta del materiale tematico. A quattro famosi standards Miles affianca in 
"My Funny Valentine" quella “All Blues” che, inclusa inizialmente in quel manifesto del jazz modale che fu "Kind Of Blue", viene adattata al nuovo linguaggio davisiano esclusivamente mediante un diverso trattamento del tempo, qui evidentemente più sostenuto. Autentico gioiello risulta poi l’iniziale “My Funny Valentine” nella cui esecuzione le impennate liriche di Miles, i quadri intimisti di Hancock, lo strepitoso assolo di Coleman (qui abile nell’alternare continuamente registro) inducono a considerare questa versione come una delle più importanti di uno standard battuto innumerevoli volte da centinaia di musicisti.

È del 14 luglio dello stesso anno il concerto di 
"Miles in Tokyo". Il trombettista è qui affiancato dal sassofonista Sam Rivers, il cui ingresso sembra risultare indolore, forse anche troppo, al punto da non dar vita a momenti di particolare coinvolgimento emotivo.
Più che dialogare con i suoi compagni, Rivers pare raccogliersi in sé stesso nell’esecuzione di frasi che sembrano indicare la strada che lui stesso avrebbe percorso negli anni immediatamente successivi. Contrariamente a quanto accadeva con Coleman, non c’è swing negli assolo del sassofonista, non v’è dialogo con gli altri musicisti tanto Rivers sembra spinto verso le dimensioni della cosiddetta avanguardia. Il suono del suo sax, poi, sembra chiuso, ovattato… per dirla in breve poco coinvolgente.
Miles sembra avvertire questa condizione, al punto che dà l’impressione di lanciarsi più del solito in impennate solistiche, nei suoi tipici sovracuti che sembrano voler smuovere una situazione altrimenti statica, e il confronto della 
“My Funny Valentine” di "Miles in Tokyo" con quella eseguita a New York sembra riuscire a sintetizzare il tutto.

Ma è finalmente il 25 settembre del 1964, con il concerto di 
"Miles in Berlin", che il nuovo cambio di sassofonista sembra risultare quello giusto, e la storia confermerà tutto ciò.
Dopo l’esperienza con i Jazz Messengers di Art Blakey, 
Wayne Shorter cede al corteggiamento di Miles ed entra in un quintetto che farà epoca. Un po' più grande dei componenti della sezione ritmica, anche lui già nel giro degli artisti Blue Note, Shorter risulterà decisivo per creare le condizioni adatte affinché Miles possa finalmente lanciarsi in un nuovo, concreto progetto.
In realtà 
"Miles in Berlin" non differisce più di tanto dai dischi che l’hanno preceduto e di cui abbiamo appena parlato. Il repertorio resta per lo più invariato, qualche standard ed alcuni originals per i quali si continua a lavorare sul tempo: “So What”, ad esempio (come del resto già avvenuto in "Four & More"), perde l’impronta concettuale del call and response che l’aveva caratterizzato nella prima esecuzione del 1959 per diventare semplice materiale rielaborato.
C’è da dire che Shorter sembra immediatamente composto, misurato, dando da subito a Miles la sensazione di poter fondare le basi per una dimensione nuova. E basterá poco, pochissimo. Basterà allontanarsi da quel repertorio per cimentarsi in composizioni originali poco articolate nella melodia ma con ampie possibilità di sviluppo in fase di esecuzione per tracciare una nuova strada, e proprio in questo Shorter risulterà fondamentale, portando ulteriormente avanti il discorso sul modale.
La quadratura del cerchio era ormai stata trovata e quel che accadrà a partire da quel momento è ormai diventato storia, anzi di più.


studio and live ALBUMS


apr 1963 / Seven Steps to Heaven

jul 1963 / Miles in Europe

feb 1964 / My Funny Valentine

feb 1964 / Four & More

jul 1964 / Miles in Tokyo

sep 1964 / Miles in Berlin

jan 1965 / E.S.P.

dec 1965 / Live at the Plugged Nickel

oct 1966 / Miles Smiles

may 1967 / Sorcerer

jun 1967 / Nefertiti

jan-may 1968 / Miles in the Sky

jun 1968 / Filles de Kilimanjaro

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